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Grappa: un’acquavite unica al mondo

Un regalo azzeccato per Natale

articolo di Luigi Odello

Verità o autocelebrazione? Tra le grandi acquaviti la Grappa è sicuramente quella che ha i volumi minori, ma che cosa la rende unica?

Fino alla fine del XVIII secolo andava tutto bene. I distillatori di tutto il mondo avevano la loro bella caldaia, in genere in rame (ottimo conduttore del calore), ci caricavano dento le materie prime alcoligene, accendevano il fuoco, facevano bollire e poi raffreddavano i vapori ottenendo così un distillato a diversa gradazione a seconda degli accorgimenti che avevano avuto nella costruzione dell’apparecchio e durante la distillazione.

La fatica però era davvero tanta: carica, scarica quando il materiale era ancora bollente, ricarica e rimetti sul fuoco. Per non parlare poi del fatto che per ottenere un’acquavite a prova d’Olanda (sopra i 50 gradi alcol) si doveva ridistillare. E dalla seconda distillazione, per non buttare via nulla, si dovevano prendere poi le teste e le code e distillare per una terza volta. Da questo fatto l’irish whisky volle trarre vantaggio facendosi propaganda che veniva distillato tre volte. Furono in molti a crederci e quindi c’è chi, capendo poco o nulla di distillazione, lo scrive ancora oggi.

Ma torniamo a noi: tutto questo per tirare fuori un paio di decine di bottiglie di acquavite da un quintale di materia prima, quando si lavora roba ricca di alcol, come vini o fermentati di cereali, perché partendo dalla vinaccia il ricavato era meno della metà.

Eppure, c’era stato quell’alchimista mezzo mago, napoletano, quel tale Giovanni Battista Porta che a metà del ‘600 aveva ideato l’idra dalle sette teste che concentrava molto di più i vapori alcolici, almeno sui vasi posti alla sommità. Forse lo fece seguendo la felice intuizione di Michele Savonarola di Padova (1385-1468), nonno del più famoso Gerolamo, che aveva alzato l’elmo dell’alambicco attraverso una serpentina. Ma pare che nei secoli successivi questi due personaggi siano stati dimenticati. O forse no, perché i francesi Berard e Adam, ancora nel XVIII secolo, avevano provato a mettere in orizzontale tanti alambicchi in cui i vapori passavano da uno all’altro, ma pare che dopo qualche morto causato dallo scoppio dei medesimi ci avessero rinunciato.

Il fatto nuovo capitò – guarda a caso – un’altra volta in Italia. Nel 1813 il fiorentino Baglioni ebbe l’idea di mettere tanti deflemmatori uno sopra l’altro, quindi in verticale: nacque così la colonna di distillazione alla cui base si fa entrare in continuo il liquido da distillare e, con la stessa modalità, dalla sommità si estrae un’acquavite ad alta gradazione.

Il mondo esultò stupito. Finalmente si potevano produrre distillati alcolici in modo veloce ed economico.

Non esultarono invece i distillatori di vinaccia. Per i loro colleghi, che gestivano liquidi (vino, fermentati di cereali e di melasse), inviare il prodotto in colonna era facilissimo, ma come si faceva con una materia prima solida come la vinaccia? Furono in molti in Europa, continente che anche ai tempi primeggiava alla grande nella produzione di uva da vino, a scegliere la via corta: la lisciviazione delle vinacce con acqua. Tanto l’alcol quanto lo zucchero sono solubili in acqua, quindi si fa un bel vinello, se non è ancora totalmente fermentato si lascia a fermentare, e poi si distilla.

Detto fatto. Ma non in Italia.

Fu virtù? No, fu necessità. Vinellare le vinacce significava ridurre in modo consistente la gradazione alcolica di una materia prima già povera, quindi dover utilizzare molta più energia per fare evaporare la maggiore quantità di acqua. Gli inglesi e i tedeschi avevano il carbone, i francesi grandi foreste. Noi non avevamo neppure più queste ultime, perché, come qualcuno ha scritto, gran parte di quelle esistenti erano state utilizzate all’epoca dell’Impero Romano per costruire il Naviglio.

Quindi l’Italia continuò a fare soffrire il calore alle bucce dell’uva. Non è un fatto di poco conto, perché la vite immagazzina gli aromi soprattutto nella parte esterna dell’acino e questi durante la distillazione passano nell’acquavite contribuendo in modo determinante al suo profilo sensoriale.

Forse l’abbiamo fatta un po’ lunga per arrivare al primo elemento per il quale la Grappa è un’acquavite unica. Ma ne valeva la pena, perché si innestano altri tre elementi di estremo interesse. Se da un canto la distillazione diretta consente un maggiore riflesso nella bevanda del vitigno e del territorio, dall’altro pone tutta una serie di problemi tecnici la cui soluzione è stata frutto del genio italiano. Quindi la Grappa non è solo italiana perché proveniente da uve coltivate e vinificate sul territorio nazionale dove deve avvenire pure la distillazione, ma anche l’espressione fedele di mille accortezze per generare un’acquavite di qualità igienica e sensoriale da una materia prima solida e facilmente deperibile. La prima cosa che fecero i nostri grappaioli fu di ideare le caldaiette in cui la vinaccia viene posta a strati dentro cestelli: se non poteva essere spinta direttamente in una colonna, almeno si poteva sfruttare il vapore di una centrale indipendente e migliorare il carico, lo scarico e persino la qualità del prodotto, evitando le micidiali scottature che si verificavano negli alambicchi a fuoco diretto.

Se la nascita della colonna pose la Grappa di fronte a un bivio creando qualche problema, le innovazioni in enologia della seconda metà del secolo scorso non furono da meno. La nascita di nuove macchine enologiche, capaci di spremere la vinaccia fino a farne segatura, e la grande epopea dei vini bianchi che inducevano a consegnare in distilleria vinaccia bianca non fermentata, di difficilissima conservazione, costituirono un vero attentato alla qualità della Grappa. E, come ogni volta, non solo si trovò la soluzione, ma addirittura una soluzione che, incredibilmente, migliorò sensorialmente la nostra acquavite di bandiera in modo notevole. L’idea fu di Giuseppe Versini che, ancora nel 1980, propose la riduzione dell’acidità reale (pH) della vinaccia. Su questo si innestò un vasto movimento che portò un nuovo rinascimento in distilleria. Insomma, la Grappa è ancora più italiana, e ancora più unica.