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L’agroecologia può sconfiggere la fame nel mondo?

«Abbiamo bisogno di un paradigma nuovo, che si basi su una nuova etica per dare accesso alla terra agli agricoltori»

Il problema della fame nel mondo è dovuto all’insufficiente produzione alimentare, che non riesce a star dietro alla costante crescita demografica? No: «La fame è causata dal fatto che grandi imperi detengono l’80% dei terreni del mondo e sono tutte monocolture. Questo limita molto la varietà di cibo che possiamo mangiare e rende l’agricoltura sempre più vulnerabile al cambiamento climatico. In più noi mangiamo solo il 30% di questo cibo, la metà dei raccolti alimentano il bestiame e l’industria dei biocarburanti: 89 milioni di ettari di terreno in Africa sono stati comprati per produrli. Perciò abbiamo bisogno di un paradigma nuovo, che si basi su una nuova etica per dare accesso alla terra agli agricoltori di piccola scala e creare un’agricoltura non più dipendente dai carboni fossili». Lo ha affermato Miguel Altieri, docente universitario, durante un convegno sull’agroecologia svoltosi a Terra Madre Salone del Gusto al quale sono intervenuti anche Anuradha Mittal, fondatrice dell’Oakland Institute, e Yacouba Sawadogo, agricoltore in Burkina Faso.

E la soluzione c’è già, basta metterla in atto: si chiama agroecologia e non va confusa con l’agricoltura biologica o biodinamica. L’agroecologia applica i principi ecologici alla produzione di alimenti, capovolge il sistema dell’agrobusiness, si prende cura delle risorse naturali e valorizza la biodiversità: in pratica ci offre delle buone pratiche per l’agricoltura. Il valore aggiunto dell’agroecologia è l’aspetto politico, il fatto che si pone l’obiettivo di sfamare i poveri e si basa sulle conoscenze di chi lavora i campi da secoli, di chi con il 20% dei terreni produce l’89% del cibo che mangiamo.

Spesso sono tecniche millenarie quelle che permettono di coltivare anche i terreni più difficili: «mi riferisco per esempio al sistema milpa messicano – spiega Altieri – in cui mais, fagioli, zucca e peperoncino sono coltivati insieme, ottenendo la resa che un sistema industriale otterrebbe con il 50% di terreno in più, ma anche ai giardini galleggianti dello Sri Lanka che resistono agli allagamenti o al sistema Zai africano inventato da Sawadogo».
Non a caso Yacouba Sawadogo è chiamato l’uomo che ha fermato il deserto: è lui l’inventore del metodo Zai, che, tramite buche nel terreno, permette di aumentare la fertilità di suoli molto difficili come quelli del Burkina Faso.
La sua storia ha inizio negli anni Settanta quando il Burkina Faso è colpito da una grave siccità con conseguente carestia: «ero un commerciante e guadagnavo bene ma tutti scappavano dalla mia terra e anche le mandrie stavano morendo. Vicino a casa mia c’era una radura e ho pensato: cosa posso farne affinché la gente non fugga? Ho cominciato a piantare alberi e coltivare sementi, soprattutto pensando di recuperare alberi utili dal punto di vista medico in modo che le persone potessero curarsi, dato che non c’era un presidio medico». Voleva che il suo progetto avesse un domani, non fosse una cosa passeggera: oggi questa radura di 25 ettari è ancora verde!
«L’individuo muore ma ciò che fa di bene per l’umanità rimane. Ho cominciato da solo ma oggi molti aderiscono alla mia visione e sono animati dalla stessa passione: deve esserci unità d’azione e di movimento per la conservazione della terra. Una persona da sola non può vincere questa sfida ma insieme ci si può riuscire», dice Sawadogo.
La sua storia purtroppo non ha un lieto fine: anche lui è vittima del land grabbing che colpisce i contadini di tutto il mondo. È stato minacciato e ora la sua radura sarà parcellizzata, così come la casa che ha costruito lui stesso e la tomba di suo padre, tutto diviso in due.

Il mondo soffre per questi soprusi, nati dagli interessi personali di chi ha in mano le redini dell’economia: «il movimento agroecologico si contrappone ai furti della terra occupandola ed eleggendo governi che promuovono una riforma fondiaria che dia la proprietà privata ai contadini – spiega Altieri -. Anche il biologico, l’equosolidale e Slow Food lavorano in questo senso ma lo fanno nelle poche finestre lasciate aperte dal capitalismo, rimanendone comunque soggiogati. Bisogna eliminare il capitalismo creando mercati solidali in cui si fanno accordi diretti fra produttori e consumatori: il capitalismo non funziona, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità con cui è stato creato. L’agroecologia trasformerà le cose davvero, senza accettare le briciole del sistema».

«Storie come quella di Yacouba accadono in tutto il mondo – commenta Mittal -. I banchieri e i politici vanno in giro a dire ai contadini cosa devono o non devono fare. Ma c’è resistenza, non significa che l’abbiano vinta o dettino legge e tutti dobbiamo fare la nostra parte. Dobbiamo smettere di pensarci solo come consumatori, sentirci staccati da chi coltiva, dobbiamo essere connessi al sistema del cibo. L’80% del cibo consumato nei paesi in via di sviluppo viene da produttori di piccola scala: crediamo veramente che quelli con il camice bianco nei laboratori potranno nutrire il mondo?».

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