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Il Principe Carlo d’Inghilterra pronuncia il discorso conclusivo a

Terra Madre che chiude i battenti per quest'anno, ma aprirà dibattiti importanti e, come preannunciato, ha visto importanti partecipazioni, come quella del principe Carlo d'Inghilterra che, a conclusione dell'evento ha pronunciato il seguente discorso:
"Signore e Signori, non posso dirvi quanto sia felice di essere qui con voi quest’oggi a partecipare a questo confronto di vitale importanza per il futuro dell’agricoltura su piccola scala e dei produttori di cibi artigianali di tutto il mondo.
Ho sempre creduto che l’agricoltura fosse non solo la più antica, ma anche la più importante della attività umane. È il motore del lavoro rurale e costituisce la base della cultura, nonché della civiltà stessa. Badate bene, non si tratta di una visione romantica del passato: oggi il 60% dei 4 miliardi di persone che abitano i paesi in via di sviluppo sta ancora lavorando la terra. Così, quando mi capita di leggere delle “visioni”, come quella elaborata per l’India da Andhra Pradesh, basata sulla trasformazione delle economie agricole locali in fucine dell’agricoltura tecnologica, incentrata sulla monocoltura, sui fertilizzanti di sintesi, sui pesticidi e sugli ogm, il mio cuore si spezza. Quello che manca a questi progetti è sempre la garanzia di condizioni di vita sostenibili: l’assenza di essa aumenta il proliferare, già esistente e terribile, di città degradate, poco funzionali e difficilmente gestibili.
Una risorsa di cui il mondo in via di sviluppo è provvisto in abbondanza sono le persone. Perché allora promuoviamo sistemi agricoli che ignorano questa ricchezza e che sono destinati a incrementare la miseria e la perdita della dignità umana?
È triste notare che la prossima crescita della popolazione globale netta, stimata in un miliardo di persone nei prossimi 12-15 anni, avrà luogo nei bassifondi urbani del mondo. In un solo di questi quartieri – di cui non dirò il nome perché si trova in un Paese che ho molto a cuore – più di 800.000 persone, metà delle quali hanno meno di 15 anni, vivono già illegalmente in meno di quattro chilometri quadrati della città. Ancora più triste è questo pensiero: a cosa porteranno tali condizioni? Probabilmente disperazione, crimine, estremismo e terrorismo. Chi si prenderà cura di queste persone quando entreranno nel mercato globale?
Nonostante le migliori intenzioni di molti, dobbiamo accettare il fatto che spesso la conseguenza della globalizzazione possono peggiorare le nostre condizioni di vita. È facile parlare con convinzione del bisogno di una “globalizzazione dal volto umano”, ma la realtà è spesso alquanto diversa. Lasciata a svilupparsi da sola, temo che – ironicamente – la globalizzazione potrebbe incrementare la povertà, le malattie e la fame nelle città e la perdita di popolazioni rurali autosufficenti. Non credo che nessuno dichiarerebbe di aver molte risposte, di tipo tecnologico o altro, riguardo quello che potrebbe esser fatto per invertire il processo. Le 800.000 persone dei bassifondi di cui ho parlato prima, non torneranno semplicemente dall’oggi al domani alla loro terra d’origine, ma, sicuramente, il primo passo per porre rimedio è esser disponibili a confrontarsi sia con le cause sia con l’entità del problema – e questo richiede una globalizzazione della responsabilità.
È abbastanza conosciuta la mia posizione sui cibi GM. Non credo, per esempio, che tutto sommato contribuiranno ad incrementare il bene dell’umanità. Pensandola così, non sto facendo semplicemente il dogmatico. Credo sia legittimo e importante domandarsi se la fiducia della gente nel potenziale di queste e altre nuove tecnologie sia frutto di un ottimismo irreale o piuttosto di una mega-pubblicità generata da soggetti interessati. Ma alla lunga questi metodi risolveranno realmente i problemi dell’umanità o ne creeranno di nuovi? E come li regoleremo con efficienza? Ci sono un gran numero di esempi, fatti in passato, di metodologie utilizzate per controllare gli insetti nocivi o per migliorare l’ambiente che poi si sono rivelate dei veri e propri disastri. E sono convinto che non abbiamo imparato la lezione, perché “manipolare la Natura è un business pericoloso”.
Anche se sottovalutiamo i potenziali effetti di questo disastro, ci domandiamo se questa sia la direzione giusta da intraprendere. Se negli ultimi 15 anni tutti gli investimenti in biotecnologie agricole fossero stati utilizzati per studiare tecniche convenzionali sostenibili credo che avremmo assistito a straordinari progressi nelle campagne.
Il problema, forse, è che tecniche come la rotazione delle colture, la fertilizzazione naturale e la disinfestazione biologica offrono una prospettiva commerciale meno allettante agli occhi degli investitori. Le persone che ne guadagnerebbero sono i tanto derisi praticanti della cosiddetta “agricoltura contadina”, che hanno molti pochi soldi, ma che sono i veri guardiani della biodiversità.
Uno degli argomenti utilizzati dagli “industriali dei campi” è che solo attraverso la massificazione saremo in grado di sfamare la popolazione mondiale. Ma anche senza investimenti significativi, e spesso subendo disapprovazioni ufficiali, pratiche biologiche migliorative hanno aumentato notevolmente i raccolti. Uno studio recente della FAO ha rilevato che in Bolivia le produzioni di patate sono aumentate dalle quattro alle quindici tonnellate per ettaro. A Cuba le produzioni di verdure di orti biologici sono quasi raddoppiate. In Etiopia, che 20 anni fa soffriva la fame in modo disastroso, la produzione di patate dolci è passata da sei a trenta tonnellate per ettaro. In Kenya la produzione di mais è cresciuta da 2,75 a 9 tonnellate per ettaro. E in Pakistan, la produzione di mango è passata da 7,5 a 22 tonnellate per ettaro.
Imporre sistemi di coltivazione industriale a economie agricole tradizionali significa distruggere il capitale sia biologico sia sociale ed eliminare l’identità culturale, che ha le sue origini nella lavorazione della terra; significa anche accelerare spaventosamente l’urbanizzazione mondiale e togliere a una grande fetta di umanità un contatto significativo con la natura e il cibo di cui essa si nutre.
La “fuga dalla terra” sta avvenendo sia in Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Sfortunatamente queste tendenze verso l’urbanizzazione saranno quasi inevitabili finché le comunità del mondo continueranno a sottovalutare i loro alimenti, considerando il cibo una sorta di “combustibile” e tradendo la loro fiducia per gli agricoltori locali.
Ma c’è anche un’altra conseguenza. C’è ora una serie di indizi che suggeriscono che nei cosiddetti paesi sviluppati stiano peggiorando le condizioni alimentari delle fasce disagiate: una generazione che è cresciuta con cibi prodotti da coltivazioni altamente intensive e per cui il futuro appare particolarmente cupo, da un punto di vista sia sociale che sanitario.
Come ha messo in evidenza Eric Schlosser nel suo brillante libro Fast Food Nation, il fast food è un fenomeno recente. Questa straordinaria centralizzazione ed industrializzazione del nostro sistema alimentare è avvenuto negli ultimi vent’anni. Il fast food povero è un cibo economico. Ma questo è perché si escludono gli enormi costi ecologici e sociali dai calcoli. Qualsiasi analisi dei costi reali dovrebbe tener conto di elementi quali l’insorgere di nuovi patogeni come l’E. coli 0157, resistente ormai agli antibiotici a causa di un uso eccessivo di farmaci nei mangimi, per non parlare del diffuso inquinamento delle acque provenienti dai sistemi agricoli intensivi. Questi oneri non sono incorporati nei prezzi che paghiamo nei fast food, ma ciò non significa che la nostra società non li paghi. Forse, dette tutte queste cose, potete iniziare e capire perché sono un gran ammiratore del movimento Slow Food e di tutte le persone che vi lavorano seriamente con tenacia e indipendenza in tutto il Mondo.
Qualche anno fa sarebbe stato impossibile immaginare che così tante persone di tutto il pianeta, direttamente o indirettamente coinvolte nella produzione alimentare artigianale o interessate al consumo dei frutti di questo lavoro, potessero riunirsi in questo modo.
Slow food vuol dire cibo tradizionale. È anche cibo locale – e la cucina locale è uno dei modi più importanti con cui identifichiamo con il luogo o regione in cui viviamo. E’ la stessa cosa con gli edifici dei nostri paesi, le nostre città e villaggi. Luoghi ben progettati ed edifici, che hanno un rapporto con il territorio e il paesaggio e che mettono le persone prima delle vetture arricchiscono tutti noi donandoci un senso di fratellanza e di comune origine. Tutte queste cose sono collegate. Non vogliamo più vivere in blocchi di cemento che si possono trovare in qualsiasi luogo del mondo così come non vogliamo mangiare cibo anonimo e scadente che può esser acquistato ovunque. Alla fine della giornata i valori come sostenibilità, comunità, salute e gusto sono più importanti della convenienza.
Slow Food si preoccupa di celebrare la cultura del cibo e di divulgare le conoscenze straordinarie – acquisite nei millenni- sulle produzioni tradizionali di cibo di qualità. Quindi è importante chiedere come questo incontro possa promuovere quegli ideali su scala più vasta, in particolare quando dobbiamo confrontarci con la fenomeni come la globalizzazione.
Credo che voi siate in una posizione migliore della mia per rispondere a questa domanda, ma per quanto vale, credo che semplicemente riunendoci e condividendo idee, partecipando al movimento internazionale Slow Food e incontri di questo tipo, le risposte verranno, come dire, naturalmente!
Su questo tema mi sembra che altre grandi associazioni gastronomiche, di cui sono membro, il movimento biologico, ad esempio, abbiano tante cose in comune con Slow Food e questa condivisione di obiettivi dovrebbe essere una fonte ulteriore per lavorare insieme.
Potrei sbagliarmi ma mi sembra che partecipare a un evento del genere possa generare dell’ottimismo e che la gente si possa giovare del consumo di prodotti genuini. Questo può accadere in una mensa scolastica o a un incontro con un produttori di cibo artigianale o anche solo sentendosi raccontare più cose sull’agricoltura sostenibile e sui benefici nutrizionali del cibo artigianale. Le persone toccate da questi concetti ed ispirate da un’esperienza del genere sicuramente vorranno immediatamente partecipare a un movimento come il vostro che porti a un reale cambiamento. L’importanza di Slow Food e di voi non può esser abbastanza sottolineato. E’ per questo, dopo tutto, che io sono qui- per provare ad attirare l’attenzione su questo evento, perché in determinate circostanze “piccolo sarà sempre bello” e per ricordare alla gente, come fece John Ruskin, che “un’industria senza arte è brutale”. Dopo tutto, gli alimenti che voi producete sono molto più di semplice cibo, poiché rappresentano un’intera cultura. La zootecnia, la lotta contro gli elementi della natura, l’amore per il paesaggio, i ricordi d’infanzia, la saggezza imparata dai nonni e parenti, la comprensione intima delle condizioni climatiche locali, le speranze e i timori delle generazioni che seguono sono elementi imprescindibili.
Rappresentate l’agricoltura genuina e sostenibile e per questo io vi saluto".
Trascrizione e traduzione del discorso pronunciato da Sua Altezza Reale il Principe Carlo d'Inghilterra a Torino, in occasione dell'ultima giornata di Terra Madre il 23/10/2004
Fonte: www.slowfood.it