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“Identità Golose”. 2° giornata congressuale. A Milano

Massimo Bottura ha vinto il premio di migliore cuoco al mondo, ottenuto dall'Accademia internazionale della cucina, organismo con sede a Parigi, cui afferiscono tutte le accademie di cucina del mondo, inclusa quella italiana, una ventina in tutto. La motivazione ufficiale: quella del modenese è una sintesi perfetta di "tradizione, scienza e arte". Bottura succede nel riconoscimento a cuochi del calibro di Bocuse, Blumenthal, Adrià, Guerard…
Di mille cose sentite e viste, riporto una frase di Gennaro Esposito, pronunciata durante il viaggio attorno alla pizza, lui sempre pronto a condividerne una con gli amici, ieri sapiente capitano non pizzante del gruppo: "Non ho mangiato per perdere tempo". Vale anche per me.
Martedì, 1° febbraio, terza e conclusiva giornata: seguiremo il Piemonte Regione ospite, Identità di riso e risotti, Dossier Dessert.

Paolo Marchi

Testi di Samuele Amadori, Alessandra Meldolesi, Carlo Passera, Andrea Pendin, Cinzia Piatti. Coordinatore dei testi, Gabriele Zanatta. Foto in Auditorium di Alessandro Castiglioni, in Sala Bianca Alfredo Chiarappa.

Le maestranze del fuoco: Sorbillo, Dell’Amura, Padoan

La pizza è un linguaggio universale, ha esordito Paolo Marchi, italiana nel lessico e nel dna. Un orgoglio nazionale che non deve arrestare la sua evoluzione né sedersi su formule a basso prezzo, rinunciando a prodotti top. Dopo le citazioni zen di Davide Scabin, marcia indietro quindi verso il modello originale. Un’idea platonica che si materializza quanto meno in tre fenomeni fondamentali. Ad interpretarli, tre pizzaioli figli e nipoti d’arte, più l’“abusivo” Gennaro Esposito, cresciuto fra i fumi di quei forni a legna: che la pasta, rivoluzionata dai bad boys dell’avanguardia, lasci il suo testimone all’atavico disco fumante? A dare il la il prototipo napoletano di Gino Sorbillo, che ha illustrato gesto dopo gesto la preparazione dell’impasto. Determinazione e rapidità per virtuosistici tour-de-main; nel free style degli ingredienti assemblati un avant-coup degli impiattati informali. A seguire la pizza al metro di Luigi Dell’Amura, inno alla convivialità con un sospetto di food design, ideale per sfamare passaggi numerosi al minuto. Una pagina di pasta semiliquida mozzata a mano, fior di latte dei monti Lattari, pomodoro fresco in stagione (la sequenza si inverte rispetto a Napoli, perché il fior di latte deve agire da spugna). “Tutti abbiamo mangiato e lavorato là: fermavano il traffico. Per me è un’istituzione”, ricorda commosso Gennarino. In assaggio un lenzuolo da 15 metri. Infine la pizza glocal di Simone Padoan, una ricerca in progress battezzata dalle materie prime. Esercizio di fusion che con la mozzarella fonde ingredienti locali, suggestioni artistiche e di alta cucina. La lievitazione è naturale, per un perlage da Champagne; le cotture delle guarnizioni separate. In coppa mozzarella di bufala, olio da tonda iblea, origano dell’Etna. “In comune c’è solo il nome, perché Simone si muove come un cuoco”, chiosa ancora Gennaro.
A.M.

Damini e Affini artigiani della gola 2011

È il momento di Roberto Bruno, direttore commerciale di Mirafiore Fontanafredda: consegna il premio di Artigiano della gola a Giorgio e Giampietro Damini, fratelli creatori di Damini e Affini ad Arzignano, in provincia di Vicenza, un luogo aperto da pochi anni, un format di macelleria-negozio-ristorante che brilla per originalità. E grande fattura delle materie prime, naturalmente. “Questo premio”, è intervenuto Paolo Marchi, “è pensato per quelle persone che lavorano un passo indietro, all’ombra dei ristoratori che ne sono testimonial. Artigiani invisibili, produttori che svolgono un grande lavoro e con grande serietà e rigore. Basti pensare che una volta sono capitato da loro, ho chiesto un marocchino ma non hanno voluto farmelo perché distante dall’ortodossia del caffè”.

La tavolozza di nature morte di Mauro Colagreco

Può l’orto essere il laboratorio di un grande chef? Nel caso di Mauro Colagreco le origini del lavoro sono proprio lì, nelle infinite varietà di piante che crescono a due passi dal Mirazur di Mentone. L’orto, sì, ma anche la memoria argentina di Colagreco, con la quinoa, la pianta più utilizzata nelle tavole delle Ande, protagonista. Un piatto solo di radici di stagione, e di colori. Si parte dal topinambur, crudo, avvolto nell’alluminio e infornato a 160 gradi. Poi viene tagliato a metà e svuotato. La pelle asciugata per cinque ore in un altro forno serve a fare una chip, fritta in olio di mais. Deve sembrare corteccia. Rappresenta la durezza dell’inverno. Colagreco realizza poi un’emulsione di lichene. Latte, funghi champignon, muschio lavato bene con l’aceto: un’infusione a 60 gradi per un quarto d’ora. Il profumo del bosco. La radice di cerfoglio viene messa a cuocere con sale in un tegame mentre viene preparata una spuma di prezzemolo e spinaci che va a rappresentare nel piatto il bosco vicino all’orto. Acqua e burro per mantecare la radice di prezzemolo. La rutabaga viene cucinata in acqua con patata ratta ed erbe di bosco. Una crema di panna e formaggio grana, in cui i due ingredienti vengono frullati. Sarà la neve. E’ arrivato il momento del risotto di quinoa. Soffritto di burro e scalogno, cavolfiore (che serve per dare colore e texture). E quinoa, ovviamente. C’è anche un biscotto di spinaci: farina , uova, burro, spinaci e lievito in polvere. Per farlo lo chef franco argentino usa un sifone (una notte in frigorifero) e lo cucina in un forno a microonde in un bicchiere di plastica forato per 30 secondi. La consistenza è fantastica. La radice di panè viene arrostita in forno in carta stagnola. Un impiattamento geometrico, un paesaggio in cui le chips, il muschio, un ombra di tartufo, il radicchio nero fresco e croccante formano il paesaggio di Mentone. Quindi arriva il risotto, la terra, metaforica, in cui le verdure del piatto crescono. Le patate, le viole, la pelle di rutabaga, la finta corteccia. Non poteva mancare la neve, cioè la crema di grana. Il risultato è una natura morta di Chardin.
S.A.

A Nilsson il premio Vent’anni di Sanpellegrino

A sala gremita, sale sul palco Paolo Caporossi, direttore marketing di Sanpellegrino: occorre assegnare il premio Vent’anni al cuoco under 30 che più si è distinto nel mondo negli ultimi 12 mesi. L’award spetta di diritto a Magnus Nilsson, 20-something che quest’anno gli italiani hanno imparato a conoscere per la vittoria al concorso Qoco di Andria: ha sbaragliato il campo con piatti di ingredienti lontanissimi dalla sua terra d’elezione, la Svezia di Åre, ben lontano da Stoccolma, a un passo dalla Lapponia. “Avere meno di trent’anni”, ha aggiunto Paolo Marchi, “non è di per sé garanzia sufficiente di talento, basta vedere come Gualtiero Marchesi bagna il naso a tanti colleghi 30-40enni. Ma il talento di questo ragazzone promette molto bene”. Come le cifre di Sanpellegrino, che tra acque e bibite nel 2010 ha sfondato il tetto di un miliardo di bottiglie vendute.

Verità versus bellezza: l’estetica secondo Bottura

Prosegue il free climbing di Massimo Bottura, per proiettare la cucina nell’empireo dell’arte. Un propulsore che si alimenta a citazioni, questa volta The girl from the north country di Bob Dylan (“poesia acuminata, che ferisce per estrarre l’anima”), ma anche al generoso serbatoio calorico della maialata invernale e alla recherche autobiografica individuale e collettiva. Urgenze che sospingono la tecnica in secondo piano, quale mero strumento di suggestioni in superfetazione. “Comincio da dove mi ero fermato l’anno scorso: è il momento di una riflessione sui valori, da portare avanti singolarmente . Senza perdere la visione del passato, che deve aiutarci a crescere senza avvitarci nella nostalgia. L’arte è ispirazione all’immortalità, alla tradizione di domani. Ma è anche ironia. Strumento indispensabile per acquistare la giusta distanza dal piatto e la lucidità che ne consegue. Tenendo presente che oggi non si cerca la bellezza, ma la verità”. Lo testimonia il civet di lepre, dove la cucina italiana si scopre così forte da assorbire le tradizioni altrui dentro il proprio saldo paradigma. Un’istantanea del trapasso dalla vita alla morte, nel momento puntiforme dello sparo del cacciatore. Il pane (impastato con aghi, cortecce, resine e funghi per il calco, poi tostato come un fossile) rappresenta il bosco, ma anche un sudario, che concettualizza il nodo subconscio della violenza rituale del magheiros. Al suo interno viene inumata la lepre frollata, contro i dettami della nouvelle cuisine, e cubettata, mantecata con pasta di foie gras marinato al latte e vaniglia, tartufi neri per la mineralità, schiuma di caffè per la tostatura, clorofilla per il bosco, rapa rossa per la mineralità e concentrato di melagrana per l’acidità. In ultimo il civet, sangue da sorbire perché la royale si è convertita in civet.
Poi un piatto legato al territorio e alla memoria, alla Trattoria di Campazzo dove Massimo raccoglieva le erbe spontanee, rispuntate magicamente a cook it raw. La logica gustativa dell’oggi è la massima concentrazione al naturale. In questo caso si applica alla rapa rossa, tradotta in una strisciata vermiglia. Su di essa piccole quenelle di yogurt, gel di funghi porcini secchi usati a mo’ di katsuobushi, sedano rapa, brunoise di odori assortiti, topinambur, ancora tartufo per la mineralità e una meringa ghiacciata di rapa, evanescente come la neve. In finitura un brodo in estrazione di pelle di patata tostata, completa di terra, a riprodurre un minestrone. Informale l’impiattato, che sembra ricondurre la ricetta alle nebbie aurorali delle sue pulsazioni originarie.
In conclusione il video dedicato a coloro che aiutano a portare avanti il progetto culturale della , regista la moglie Lara. Lo inaugura la mamma, incipit emozionale per la favola della famiglia Estense in transito da Ferrara verso Modena, sulle orme del pesce dei Sargassi: “C’era una volta un’anguilla vanesia, che voleva conoscere le proprie origini…”. E risalendo lungo il Po incontrò gli ingredienti del piatto di Massimo, saba e mele campanine. Sullo schermo toccanti immagini del Parco del Delta del Po, fiocinini, artigiani, vecchi contadini e sacerdoti del maiale, ma anche compagni di brigata, artisti e galleristi. Tutti in qualche modo corresponsabili del premio che di lì a poco più tardi varrà a Massimo Bottura il titolo di miglior cuoco del mondo.
A.M.

Stabile, Moretti e il futuro concorso per beer-chef

Ha il dono dell’ubiquità Marco Stabile dell’Ora d’Aria di Firenze, ieri mattina autore di una lezione in Sala Bianca, e poco dopo sull’Auditorium per ritirare il premio Birra in cucina, che poi è proprio l’oggetto della ponencia tenuta al piano di sotto. Lo premia Alfredo Pratolongo, direttore di comunicazione di Birra Moretti (in foto anche Paolo Marchi e Massimo Bottura), fiero di premiare un ragazzo che continua a lavorare sull’utilizzo della bevanda come ingrediente che attribuisce un senso ulteriore a carni, pesci e verdure. Una pratica che in Italia ha ampi margini di miglioramento, una sfida condotta grazie al lavoro di tanti cuochi. Per Birra Moretti l’occasione è buona per annunciare un concorso proprio internazionale di cucina della birra, ideato proprio assieme a Identità Golose: cuochi under 35 da vari paesi si sfideranno a colpi di birra (come ingrediente, non semplice match di una tal pietanza). Una kermesse importante, che presto sveleremo nei tempi e in tutti gli altri dettagli.

Graffi Taglienti su Identità di Birra

Identità Golose apre la giornata della birra in Sala Bianca con il ligure Luigi Taglienti de Le Antiche contrade di Cuneo. Per lui la bevanda deve giostrare ai fornelli come esaltatore di aromaticità. L’emozione che traspare dal giovane chef è figlia della ricerca di nuove forme espressive d’avanguardia. Una ricerca che lo vede fondere ingredienti tipici con varie tipologie di birra, birra che aiuta a ripulire, a sgrassare e quindi ad alleggerire ricette tipiche.
La ricerca dell’essenziale ha inizio con un carpaccio di fassona piemontese. Il dolce-amaro tipico della carne è prolungato dall’amaro-salato di una riduzione di birra Moretti Grand Cru, che rinfresca e amalgama le note aromatiche. Le texture sono tutte ben studiate e non trascurano mai il lato croccante, sempre più necessario in un piatto. Il croccante è ricreato da un sofficino ai quattro formaggi, che porta lunghezza e piacevolezza all’insieme. Completa il piatto una schiuma con la stessa birra e un insalatina riccia, che dona l’umidità necessaria alla degustazione.
La seconda prova nasce dallo studio delle consistenze, senza preconcetti, appunto con la Testa sgombra, che poi è il nome al piatto. Infatti occorre approcciarsi all’utilizzo della birra per la sua freschezza assoluta, che rende forma da una zuppetta di Baffo d’Oro, gelificata con la iota e speziata in complementare con le note fresche del pepe di Sechuan e del cardamomo. Zuppetta che è continuità di consistenze molto fondenti, simili a quelle della testina di vitella cotta molto a lungo, punto fondamentale del piatto. Due elementi che si accompagnano e sorreggono a vicenda, contrapposti alla freschezza nuda e pura di un sgombro leggermente marinato al limone verde. Completano foglioline di coriandolo, un contrasto di aromaticità. Tutte dottrine trasformate nella pratica a pranzo, per la gioia di tanti: pietanze di Taglienti, in abbinamento a Birre Moretti, illustrate da Chiara Giovoni, sommelier di Nicola Cavallaro a Milano.
A.P.

Marco Stabile: la serenità della sperimentazione

Una tartara non battuta, pensata per godere del piacere di mordere la carne e godere della sua scioglievolezza, affrontando il lato amaro della birra: la prima esecuzione di Marco Stabile è una “supertartara” di muscolo di fassona, marinata nella birra Baladin per tre minuti e fatta a dadini cosparsi di fior di sale, pera e crescione. Marco ci dimostra come sfruttare tutto il carattere della birra, senza farsi fermare dalla vena amarognola che ne segna il carattere.
Scettico ricredutosi sulla potenzialità dell'uso della birra in cucina, il cuoco toscano da 3 anni la impiega in molte ricette, “a suon di esperimenti ed errori”dice ridendo, giocando sulla versatilità delle diverse tipologie in commercio. Come la fassona marinata cambia aromi e consistenza, diventando più elastica e meno filosa, così le animelle di vitello messe sottovuoto con birra Grand Cru Moretti e miele di rododendro mantengono morbidezza e amaro. Le animelle ripassate in polvere di nocciola accompagnate con bietole e lardo di cinta senese affumicato sono paradigmatiche dell'intenzione di sfruttare le note amare sottolineate dalla birra; l'idea di proporre dei sapori costruiti ma facili da capire, semplificando la cucina pur giocando con qualcosa di complesso, implica l'obbligo di studiare ex novo delle ricette appropriate, e Marco Stabile adempie felicemente a questo compito, soprattutto nei risultati.
Ci.Pi.

Loretta Fanella e l’amaro che spezza il dolce-dolce

Astemia, dunque ben poco avvezza alla birra e del tutto ignara delle possibilità di declinarla in un dessert “dei suoi”. Per capirci: «Cinque minuti dopo aver accettato di tenere questa lezione, mi sono posta molti dubbi…», spiega Loretta Fanella con il candore che la contraddistingue, è una fatina anche nell’aspetto. Però il personaggio lo si conosce, affascina grazie a quella fantasia eterea e vagamente svagata per la quale s’immagina d’un tratto – ma solo quando la si lascia sola, mica sul palco – possa indossare un cappello azzurro alla Mago Merlino, tirare fuori la bacchetta magica da far roteare nell’aria due o tre volte, qualche formula d’incantesimo e puff!, ecco la dolcezza, magari sotto una pioggia di stelline colorate. La realtà pare essere diversa, la copia delle ricette distribuita durante la lezione testimonia infatti la perfetta conoscenza delle basi classiche di pasticceria (in fondo “Mela alla birra con meringa al miele e gelato alla crema” ha fondamenta del tutto tradizionali, la crema montata di Moretti Gran Cru è il solo elemento eterodosso ma perfettamente equilibrato, con richiami aromatici nel miele di castagno della meringa) innervate poi dalle migliori tecniche contemporanee. La birra in pasticceria può avere spazio, spiega, «giacché il suo amaro aiuta a spezzare la monotonia del dolce, bisogna sempre evitare l’effetto stucchevolezza. Ha, insomma, la stessa funzione che in altre preparazioni assumono l’acidità, o la freschezza, o l’aromaticità ». Sdoganamento pieno, dunque, che trova la propria sublimazione in una proposta più complessa come “Sfera croccante al cioccolato con purea di cachi, castagna e schiuma di birra vellutata”: un biscotto alle castagne (again) s’accompagna al cremoso di cioccolato e alla purea di cachi, per sensazioni dolci-dolci alle quali una gelatina birrosa montata a schiuma fornirà quella nota alternativa, amarognola, secondo l’aureo principio testé annunciato dalla fatina.
Ca.Pa.

Identità Golose, a breve il nuovo sito internet

Paolo Marchi, Claudio Ceroni e Gabriele Zanatta (foto) aprono il pomeriggio con una breve chiosa su un progetto importante: salperà a breve il nuovo sito internet di Identità Golose al motto di “IG 365 giorni all’anno”. Il progetto si rende necessario per due motivi: fare ordine sulle centinaia di protagonisti che hanno affollato 7 edizioni di congressi in Italia (più i cuochi di Identità London, New York, Shanghai, San Marino…) e 5 edizioni di guide ai ristoranti del mondo. Secondo motivo: intercettare e rendere espliciti gli input e le segnalazioni delle centina di collaboratori/giornalisti da ogni angolo, sempre pronti a segnalare quel che bolle nelle pentole di Sudafrica, Brasile, Svezia, Australia, Francia… Insomma, un compendio online della cucina d’avanguardia nel mondo, con i suoi protagonisti. O, come spiega Paolo Marchi, “un album Panini della cucina globale, coi curriculum e la cifra stilistica delle identità più forti della cucina mondiale”.

Lo zen e l’arte essenziale di Niko Romito

Estrarre: qualcosa che si schiaccia, qualcosa che si comprime, che va al cuore. Una filosofia che nel concreto radicalizza un gusto tramite la conoscenza, la tecnica, il talento dello chef. Che in questo caso è tanto, perché sul palco milanese sale Niko Romito. Lo zen e l’arte di Romito di andare al cuore della faccenda.
Primo passo. I capellini glassati ai porri. Gesti primordiali: la brace per cuocere i porri. Il cuore resta umidissimo, schiacciato si ottiene l’essenza del porro. La pancetta in padella a secco, scarica il grasso sul fondo, prima della cascata dell’acqua di porri, con sale e peperoncino. Il liquido bolle, i capellini si tuffano, assorbono il porro e perdono gli amidi.
E due. La melanzana arrosto. Le melanzane lunghe sono in forno, la loro essenza viene estratta e ristretta fino a una densa monade. Le melanzane tonde, solo il cuore. Diventano parallelepipedi che vengono salati, disidratati. In una notte non è più sé stessa, è disidratata. Lo chef la glassa con quel denso miele di melanzana. Il tutto in forno, poi si ripete l’operazione. Zucchero, peperoncino, liquirizia. E poi fiamma ossidrica, un fuoco purificatore che arriva con il pomodoro e un concentrato di rosmarino.
Punto tre. Gel di vitello, porcino, tartufo e mandorle. Per il brodo di vitello servono cubi di muscolo di vitello, odori, ghiaccio (per ottenere un brodo più limpido). 4 ore a bollire. Decantazione, filtrazione. Il primo brodo serve come liquido per fare un secondo brodo. Il terzo brodo in infusione con del tè nero. Col quarto infusione con porcini secchi, per trenta minuti. Una cialda di liquirizia, croccantissima e leggermente dolce, bruciata con la fiamma. Mandorle in acqua fredda per un giorno, poi si frullano per farne una crema. Concentrato di aghi di pino, addensato. Il risultato finale è gel di vitello, cialda di liquirizia, crema di mandorle, estrazione di aghi di pino. E il tartufo per completare la sensazione boschiva. In realtà è un piatto punk, che strappa e sputa sulle preparazioni tradizionali.
S.A.

Narisawa: il fiume carsico del Giappone d’autore

Nato in Giappone, ma rinato alla cucina al fianco di un mostro sacro come Ezio Santin, Yoshihiro Narisawa è tornato in Sol Levante per forzare le maglie della cucina di repertorio, costruendo una fantasiosa passerella sotto il vessillo euroasiatico. Non senza lo zampino di Cook it Raw, se è vero che vi ha adottato ingredienti friulani come il radicchio di Gorizia a forma di rosa, sorta di omaggio al sangue che ha innaffiato copiosamente quelle terre. “Sostenibilità e gastronomia”,“Progresso delle tecniche tradizionali”, “Preghiera”, “Creare dal nulla” sono stati i motti del suo intervento, inaugurato dalla ricostruzione del bosco invernale, dedicata alla nevicata del giorno precedente. Un’esplosione di estetica wabi dove il fiume carsico dei japonismes, dopo avere percorso tutta la cucina contemporanea, è riemerso a sorpresa sotto forma di una freschissima cucina d’autore proprio in terra nipponica. Cromosi bruciato come incenso, cortecce, rami, foglie ricavati da verdure, una ciotola con essenza di bosco compongono un micropaesaggio sinestetico, frammento casuale di terreno disegnato dal bastone dell’aruspice, senza leziosità mimetiche e vibrante del suo engagement ecologista. Poi il pane lievitato e cotto davanti all’ospite, in una ciotola riscaldata ad alta temperatura, che sfrutta le energie della natura. La ricerca della quintessenza, ovvero il brodo ideale, ottenuto con la cottura al vapore a 98 °C, fa appello alle molecole con il registro del chimico. L’essenza rosa di carne che se ne ricava viene addizionata a radicchio rosa e petali di rosa per un effetto di ridondanza martellante come le invocazioni di una preghiera. A seguire Terra, piatto scuro alla Des Esseintes. Se è vero che tutti i cibi più ambiti sono neri, perché all’uomo piace esorcizzare la morte mangiandola (copyright Peter Greenaway). Una zuppa di terra, seguita dalla declinazione mangereccia del carbone. A lavare via il lutto l’acqua trasparente al rafano e crescione, ricordo di fronde e verzure che bordeggiano i ruscelli, distillata per riagguantare la limpidità di un’insalata da bere.
Alchimie per cui merita di diritto il Premio Identità e differenze, consegnato dalle mani di Francesca Moretti, del gruppo Terre Moretti.
A.M.

La cucina delle cose: Gennaro Esposito

Un cesto di cose. Verdi. Della Campania. Gennaro Esposito fa da mangiare con questo, con delle cose. Autenticità, territorio. Parole chiave. Gennaro Esposito è il cuoco dell’anno, per Identità Golose. Un cuoco, sì, cuoco, di verdure e di pesce. Uno che cucina le stagioni. Nel suo pranzo ideale si inizia con un risotto con triglia marinata e zenzero candito, salsa di broccoli neri, mantecatura fatta con la pelle di una burrata. Bucce di limone in acqua e sale per 20 minuti, che vengono messe a tostare con il riso, poi entra in scena il brodo di limone. Buccia di limone candita, per un gioco di dolcezza e acidità. Infine succo di limone. E grana durante la cottura, per ottenere una struttura ma non una sovrapposizione di personalità. La triglia è cruda e sfilettata, lo zenzero grattugiato di fresco, così come il limone. L’acido del succo di limone, un pizzico di sale, un goccio d’olio. Una triglia che sembra una triglia, insomma. La vestizione del piatto: i cubetti di triglia si uniscono al risotto, ormai pronto, e si passa alla legatura, con poco burro, succo di limone e la pelle della burrata. La trama del formaggio deve restare intatta. Massaggi lenti, nessun calore. Chiusura dolce, con il limone candito. Decorazione con quenelle di triglia marinata, una salsa scura e corposa di broccoli, grattugiata ancora di limone. L’altro piatto proposto è la minestra maritata di pesce. Broccolo di rapa, torzella, broccolo foglia d’olivo, broccolo di natale, borraggine, scarola liscia, cicoria, cardo, bietola selvatica, verza, scarola riccia. Verdure di stagione, di personalità. Da sposare con pesci dal sapore importante. Involtini di aringa con mollica di pane e prezzemolo, cotti in forno. Stoccafisso in brodo di pollo con il florilegio di verdure. Trippa di baccalà arrotolata attorno a prezzemolo, pinoli, uvetta. Come se fosse maiale. Cottura in un tegame di coccio, avvolgimento in una fettina di pancetta. In padella finiscono gli involtini e le foglie di broccolo.Nel piatto il premio come attrici non protagoniste va alle uova di aringa, esplosioni di sapore. Le verdure, i pesci, appoggiati sul fondo come creature di scoglio. Sopra cade il brodo, ricco e leggero.
E dopo arriva Casimiro Maule, direttore della Cantina Nino Negri: il premio di Cuoco dell’anno è suo. E a furor di popolo, a giudicare dai boati del commiato del cuoco.
S.A.

Il giardino marino di Paul Liebrandt

Già al fianco di Marco Pierre White e negli alveoli della grande mela, Paul Liebrandt incarna il nuovo lusso americano. “Espressione marina” è stato il titolo minimal del suo intervento milanese: emblematico per l’immediatezza delle sensazioni come per l’orizzonte blu che si scopre alle spalle dello skyline metropolitano. Un serbatoio di pesci guizzanti pronti a saltare nelle sue casseruole, yankees non senza decise influenze nipponiche. Semplicità, modernità senza esasperazioni, spontaneità hanno contraddistinto i ricci di mare di Santa Barbara (molto iodati su fondo dolce) con royale di carote, gelatina di kombu colorata con nero di seppia e affumicata, più una cucchiaiata di spuma di birra bianca, yuzu e acqua. E una violetta in balia delle onde. È il primo di una cinquina di bocconi che compongono il piatto; a seguire lo scampo del nord dell’Alaska con meringa di cipolle crude, lardo, scorza di bergamotto candito e chantilly di latte di capra su una lastra di sale aromatica, rossa e antisettica. Il giardino marino, per finire, con il suo crudo integrale ha finito di alzare il sipario sui giacimenti gastronomici d’oltre oceano: il wakame californiano, più floreale del giapponese, le ostriche locali in gelatina, le foglie di ostrica per la profondità gustativa e le vongole nostrane.
A.M

Magnus Nilsson e la conservazione a oltranza

Se le condizioni atmosferiche sono proibitive, come fare a conservare le materie prime per mesi di isolamento? Ce lo spiega Magnus Nilsson, chef prodigio dello Fäviken Magasinet, che ha imperniato la sua lezione sull’utilizzo di ingredienti salvati dalle intemperie. Una cucina brutale, legata strettamente ai limiti imposti dalla natura svedese, realizzata senza strumenti. Solo con le mani. Si parte dalle braci di carbonella, su cui affumica un osso di bue. Quando l’osso è pronto, si estrae il midollo, profumatissimo, che tagliato diventa insalata insieme a dei germogli di orzo e a cubetti di cuore crudo di bue. Il tutto servito con pane tostato. Semplice, vero, terribile. Cucina iperrealista. Il porro, protagonista di un altro course, viene messo in un secchio nella sabbia per essere conservato nei lunghi mesi invernali senza che appassisca. Il condimento per i porri è formaggio fresco tagliato a quadretti e riscaldato lievemente, così che rilasci il siero. E alla fine va a somigliare al tofu. Un mix di erbe, mescolate a sale per la conservazione sono già nel piatto, con i porri, appena cotti al vapore, insieme al formaggio fresco. Come i porri, le radici, le rape, i ravanelli, le carote, i carciofi, vengono mantenute vive nella sabbia fino a marzo, aprile, ma intanto iniziano a germogliare. Le verdure vengono lavate e messe sulla carbonella, dove già fumava il grosso osso. Attenzione che non brucino. Nilsson prepara una crema con birra fermentata che ricorda l’aceto. Un flash bianco nel piatto. Le verdure alla carbonella vengono ripulite dalle bruciature e impiattate con germogli e bottarga. Quella italiana. Un piccolo strappo alla consuetudine della prossimità.
S.A.

I vegetali d’alta quota di Emmanuel Renaut

È una vecchia conoscenza del congresso, Emmanuel Renaut, cuoco alpino dall’apprendistato classico, affaccendatosi al parigino Crillon e al fianco di Marc Veyrat, nonché laureato Meilleur Ouvrier de France. Altissima, purissima, buonissima, la sua cucina riecheggia la natura circostante con una tecnica altrettanto cristallina, spesso limpidamente invisibile. I guanti della sfida si chiamano spaghetti e gnocchi, declinati in chiave terroiriste, facendo aggio sui produttori che lavorano per il ristorante. In entrambi i casi vegetali sugli allori, puliti ma non lavati dalla terra, conservati fuori dal frigorifero ed esaltati nei colori, per evadere dalla freddezza meteorologica con la potenza della monocromia. La scorzonera è tagliata a forma di spaghettini con la mandolina e saltata nell’olio affumicato; il lardo di Arnad, espressione di una koinè alpina, e il Grana completano il piatto, elegante tono su tono mimetico. Mentre le patate degli gnocchi sono cotte nel succo di barbabietola, per ottenere un gusto terragno che riporti il tubero alle origini. L’impasto classico, addizionato di farina, è lavorato nel modo consueto; la lessatura avviene nel succo di cottura e il condimento, sempre a base di centrifugato di barbabietola, viene legato con un uovo bazzotto, insuperabile emulsionante naturale, più scaglie di Grana e foglie di crescione. Tre volte barbabietola per un fiammante sentimento ipogeo.
A.M.

Assenza e Paternoster: il rinascimento dei mieli

Nella passate edizioni di IG abbiamo sempre interpretato il miele come ingrediente base di particolari tecniche in cucina, come estrattore e concentratore della miele-cottura, nell’osmosi degli zuccheri o come assorbente di aromi di spezie e sostanze grasse. Mai è stato presentato per la sua vera essenza di agente aromatico dei vari fiori, un lavoro di complessità culturale che coinvolge la salvaguardia dell’ambiente e la biodiversità.
Per questo esiste una sintonia speciale nei linguaggi tra l’apicoltore nomade Andrea Paternoster e il pasticcere siciliano Corrado Assenza. Sono uniti dalla voglia di creare cultura sull’individuo ape, uno dei pochi esseri viventi proattivo per la natura. “Senza api non avremo futuro”: esordisce Assenza. Un affermazione di cultura e salvaguardia, che scavalca il semplice lato consumistico o gastronomico, perché il miele è il risultato del lavoro dell’ape in un preciso territorio, caratterizzato così in modo ancore più forte di come potrebbe farlo un vino o un olio. Mieli come cultura, mieli come stimolo per giovani per migliorare il terroir, mieli per troppo tempo dimenticati e trascurati. Un lavoro con cui chef e pasticceri esaltano al massimo le potenzialità dei vari picchi aromatici di tutti i mieli monovarietali italiani e esteri, con una concezione nuova, che pensa al bene di tutta la filiera. Assenza riscopre il miele come puro contenuto di ricchezza aromatica e dolcezza. La vera essenza del miele.
A.P.

Fermentazioni invernali: Eugenio Pol e Luciano Alberti

Pane e miele: possono stare insieme oltre al classico dell'infanzia del fetta di pane ricoperta? Prosegue il pomeriggio con Eugenio Pol, uno degli ultimi artigiani innamorato dei suoi pani, ieri lavorati con pollini monoflora di Andrea Paternoster, sul palco in sala bianca insieme a Luciano Alberti dell’Osteria del Borgo a Borgosesia. Lavorare sull'impiego del miele oltre al più noto territorio dei dessert ha stuzzicato l'estro di Eugenio, che utilizza i pollini per le fermentazioni dei suoi impasti. Il primo pane presentato è stato fatto fermentare con pollini di salice e impastato con sidro bretone e burro, e arrivato al pubblico con insalata di barbabietola, arancio, formaggio di capra, vinagrette di miele ed erbe. A seguire è stata la volta di un pane di avena e vecchie varietà di grano tenero lavorato con polline di trifoglio e miscelato con spezie ed erbe, mentre dalla cucina sono arrivati ravioli di formaggio di capra, miele di erica, menta e peperoncino amazzonico. Eugenio ha trovato il modo di donare al suo pane le stesse nuances che ottiene spontaneamente in estate, rinvigorendo il suo lievito ventennale, ottenendo profumi nuovi e mantenendo l'impronta unica del suo lavoro.
Ci.Pi

Paternoster e Claudio Pregl: alla scoperta del mielolio

Calata dal Trentino con furore, la coppia Andrea Paternoster-Claudio Pregl incarna, in primo luogo e all’anagrafe, la commistione di diverse identità latine e teutoniche, ma soprattutto, per scelta consapevole, il partito pro-miele all’interno della tradizione gastronomica occidentale. Affascina che proprio da loro nasca il “mielolio” (o mieliva), prodotto emblematico di un “ritorno al futuro” che recupera – in assoluta contemporaneità creativa – due elementi archetipi, che ci rimandano a un mondo pre-zuccherino, pre-moderno (là dove modernità acquista però un’accezione deteriore), un universo bucolico olio-e-miele cui manca solo un elemento (il latte) per assurgere a vero e proprio paradis perdu, ma che si staglia perlomeno con le sembianze del mito. Tradotto in parole povere: il mielolio non può che stare molto simpatico ed è pure evocativo. Ma dal punto di vista gastronomico questo non basterebbe ancora. E allora diciamo che l’emulsione olio-miele, da questo punto di vista, fornisce piacevoli sorprese. Intanto, a livello strutturale: Pregl miscela extravergine e miele (“made in Paternoster”, ça va sans dire. E lo si può fare con mieli diversi…) senza badare a temperature e con quantità variabili dei singoli componenti, dipende solo da cosa si vuole ottenere. Ne ricava un composto stabile (tale caratteristica si manifesta specie con i mieli cremosi, con cristalli molto fini), di aspetto quasi gelatinoso, consistenza viscosa ma trasparente, che lo chef ha concepito per condire-accompagnare una trota salmonata e affumicata – su letto di misticanza e accompagnamento di fiori eduli e yoghurt –, ma che può essere accostato secondo fantasia. A Identità Golose è stato proposto un panino di vinaccioli imbottito con carne salada, miele di coriandolo e brumoi, una tipica verdura che s’ottiene in questi mesi gelidi portando al caldo della cantina una rapa bianca, interrandola nella sabbia e aspettando che germogli. Dà croccantezza e amaro a un piccolo grande sandwich di alta qualità gourmand.
Ca.Pa.

Joško Sirk: aceto e miele, un matrimonio perfetto

Dal miele-olio al miele con l’aceto: scende dal palco la coppia Paternoster-Pregl… che vi salga subito dopo Joško Sirk è dimostrazione palese di quanto il miele possa risultare versatile in cucina – ragione stessa del pomeriggio “Identità di miele” in Sala Bianca. Perché? Perché Sirk è il profeta dell’aceto, un fetta di mondo agli antipodi rispetto a quella dell’olio: il miele le unisce in stretto legame gourmand. La simbiosi del miele con l’aceto è un rapporto di amore-odio, di estremi che smussano l’un l’altro le rispettive spigolosità: il primo raddrizza provvidenzialmente la stucchevolezza dolce, il secondo leviga l’acidità tutta liquida. Matrimoni del genere sono solitamente destinati a durare. Anche in cucina? Uno degli sposi – l’aceto – deve essere di qualità. Ricavato, nel caso di Sirk, non da vino («I vini di oggi sono troppo “tecnologici”»), ma direttamente da uva deraspata, lasciata un poco riposare, poi portata subito alla fermentazione acetica con l’aggiunta di aceto madre, lasciata così per undici mesi affinché tutto l’alcol si trasformi in acidità, poi filtrata per eliminare fecce e vinacce, infine posta in barrique per due o tre anni. Fermentazione diretta, spontanea, del tutto naturale: certo il contributo più sostanzioso di Sirk alla gola contemporanea, com’è stato detto. Ottenuto in questo modo un prodotto di grande versatilità e figlio di una storia antica, resta il tema del suo abbinamento, in questo caso col miele. Corre in aiuto lo chef Alessandro Gavagna de La Subida, il ristorante di Cormons da sempre regno di Sirk stesso. Prima con un sorbetto miele, olio e aceto che pare fatto apposta per pulire la bocca tra una portata e l’altra (ha una limitata presenza zuccherina solo per limitare la caratteristica anti-congelante del miele); poi in una dadolata di cervo marinato nel timo e nella maggiorana e poi condito con la paprika e infine aromatizzato con l’emulsione miele-aceto. Bon appetit.
Ca.Pa.

Assenza e l’Umanesimo del gusto (aromatizzato al miele)

Metafora calcistica: «Io sono il bomber, ho il compito di fare gol. Ma dietro di me c’è tutta una squadra che corre e lotta, sono i tanti produttori di giacimenti gastronomici che mi permettono di creare, di andare insomma in rete». Bella responsabilità per Corrado Assenza (in foto con Vittorio Castellani), terminale di cotanto mondo goloso. La ponderosa mole non pare schiacciarlo, appare più vispo e immaginifico che mai. In Sala Bianca – chiamato a declinare la dolcezza sfruttando le suggestioni mielose, tema del pomeriggio – teorizza la pura creatività, la necessità di conoscenza per la miglior trasformazione del prodotto, il ruolo dell’autore (siamo appunto a un passo dall’arte) che deve essere perfetto osservatore delle materie prime per essere in grado – vien da dire, potersi quasi eticamente permettere – di creare. E’ quasi un nuovo umanesimo, un Rinascimento del gusto: applausi giustificati. Li attirano anche le due creazioni che Assenza presenta a IG 2011, sotto il tema “Formaggi, creme e gelati al miele”. La prima si basa su un gelato di latte di capra che, «per interrompere la monotonia della crema fredda che si scoglie in bocca», viene servita con un risotto cotto nel succo d’arancia bionda e nello sciroppo ottenuto con scorze d’arancia lasciate in infusione. Il riso in questo “brodo” tutto particolare cambia struttura, perde l’amido, «diventa insomma cariosside croccante» che accompagna il gelato, ovviamente senza mantecatura “classica” ma con la dolcezza aggiuntiva del miele. Seconda idea, a sua volta folgorante, datata giugno 2010: recuperare formaggi di capra – magari una straordinaria robiola di Roccaverano? – per creare una cheese cake. E dunque: pan di Spagna alla nocciola (con melata), crema del suddetto formaggio con mieli di timo e rododendro (by Andrea Paternoster), mela cotogna cotta a bassa temperatura, sciroppata e poi lasciata riposare quattro mesi e a guarnire il tutto una crosta croccante di riso nero Venere al sesamo.
Ca.Pa.

Teo Musso: spericolatezze tra miele e birra

Chiude la giornata di lunedì in Sala Bianca il vulcanico Teo Musso, e il suo modo di interpretare la birra per come si è evoluta in 8mila anni di storia. Un viaggio-riflessione partendo dai primi fermentati di miele, dall’Egitto fino alla drastica rivoluzione del luppolo. Perché oggi, fare birra di qualità significa non dimenticare e cercare di sorpassare le produzioni che dopo la rivoluzione industriale hanno visto declassare la bevanda a semplice schiuma amarognola. Negli ultimi anni questo produttore ha spaziato in vari ambiti per promuovere il suo modo di fare birra e di abbinarla all’alta ristorazione.
E’ da questo melting pot di idee che nasce il confronto con il miele, proprio per l’idea di naturalità e diversità aromatica. Se lo si aggiunge alla bevanda all’inizio, qualsiasi miele caratterizza in modo molto invadente il prodotto finale. Quindi per spingere al massimo l’eleganza e preservare le profumazioni bisognerebbe utilizzarlo nella fase di rifermentazione in bottiglia, equilibrandolo con dosi precise di amaro, ad esempio attraverso le resine: solo in questo caso otteniamo l’espressione migliore del miele. La degustazione di Teo è partita proprio dal concetto di far sentire le note mielose in alcune tipologie di birre, come in una lager, per poi far notare quanto sia importante la resina (che utilizza nella Nora) assieme al luppolo per dare continuità di freschezza. Tutto ciò per capire Erika, la birra ottenuta coi prodotti di Andrea Paternoster, in cui il miele – appunto di erica – viene utilizzato nella prima fase di bollitura. Mentre, per dare l’amaro equilibrante in fase di rifermentazione, viene utilizzato un miele di melata che ricorda le componenti di una resina. Massimo equilibrio.
A.P.

Fonte: news letter "Identità Golose"