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I costi umani, sociali ed ambientali dello spreco alimentare

Circa 800 milioni di persone nel mondo fanno i conti, tutti i giorni, con la fame e la denutrizione. Eppure tra il 30 ed il 40% del cibo prodotto al mondo per il consumo umano viene letteralmente sprecato. Se l’attuale crescita demografica e lo sviluppo economico continueranno con questo trend, entro la metà di questo secolo, il mondo dovrà produrre oltre 53 milioni di tonnellate di cibo in più.

Questo richiederà nei prossimi trent’anni la conversione in terre coltivabili di altri 442 milioni di ettari di foreste e di distese erbose con un conseguente aumento delle emissioni di anidride carbonica pari a circa 80 miliardi di tonnellate in più, praticamente 15 volte le emissioni di questo gas serra dell’economia statunitense nel 2019. Già oggi lo spreco alimentare è responsabile dell’8% dei gas serra del mondo.

Contrastare lo spreco alimentare quindi non è soltanto un fattore etico ma anche la strada più facile ed efficace per limitare le emissioni di gas serra e quindi mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Inoltre promuovere una dieta più salubre avrebbe effetti positivi sulla salute pubblica ed in ultima analisi sulla qualità della vita delle persone. Senza contare enormi risparmi in campo energetico, nell’uso dei fertilizzanti, nelle ore lavoro e di altre risorse.

E’ possibile intervenire in ogni segmento della filiera alimentare per contrastare lo spreco alimentare, dal campo alla tavola. Secondo alcuni studi recenti un’alimentazione più sana ed una produzione agricola più rigenerativa ha un deciso impatto sul foodprint, ovvero l’impronta alimentare, riducendola drasticamente. Se metà della popolazione mondiale seguisse una dieta giornaliera da 2300 calorie, al posto di quella attuale che spesso supera abbondantemente le 3000, si otterrebbe un primo concreto risultato nell’ambito della lotta allo spreco alimentare.

Questa riduzione bilancerebbe il necessario aumento incremento calorico e proteico dei paesi in via di sviluppo e consentirebbe una riduzione nei prossimi tre decenni di 166 milioni di tonnellate di cibo. Un altro passaggio indispensabile consiste nel riequilibrare il cibo prodotto da quello di origine animale in favore di quello di origine vegetale. Alimenti differenti come cereali, latticini, pesce, carne hanno infatti impronte alimentari molto diverse. Ad esempio coltivare e raccogliere un chilo di pomodori genera 0,35 kg di CO2. La stessa quantità di manzo produce 36 chilogrammi di emissioni di anidride carbonica.

Se consideriamo tutti gli aspetti della filiera alimentare, il cibo di origine vegetale produce emissioni di gas serra dalle 30 alle 50 volte inferiori al cibo di origine animale. L’agricoltura intensiva ed a carattere industriale con l’uso esteso di pesticidi e fertilizzanti depaupera il terreno e produce molti gas serra. Per contro le pratiche di agricoltura rigenerativa possono aumentare le rese dal 5 al 35%, risanare il suolo ed eliminare più carbonio dall’aria.

Nei paesi a basso reddito lo spreco alimentare si concentra ancor prima di arrivare sul mercato. In questi paesi urge una radicale opera di formazione degli agricoltori e l’adozione di tecnologie moderne ed innovative per minimizzare gli sprechi. Si pensi ad esempio alle unità di refrigerazione che impediscono alle derrate alimentari prodotte di deteriorarsi prima ancora di entrare nel circuito di vendita.

Al contrario nei paesi ad alto reddito lo spreco alimentare si concentra alla fine della filiera alimentare, nei punti vendita e nelle famiglie. In questo caso un’educazione all’utilizzo consapevole ed equilibrato del cibo da parte dei consumatori finali può fare la differenza. Far capire che le imperfezioni nella forma e nei colori degli alimenti non equivale automaticamente ad un’inferiore qualità è uno dei primi obiettivi da conseguire. I venditori all’ingrosso, al dettaglio ed i ristoratori, inoltre, possono giocare un ruolo importante nella riduzione dei rifiuti alimentari.

Così come un ruolo essenziale lo rivestono le mense aziendali e le società che le gestiscono. Ad esempio le mense federali del governo degli Stati Uniti servono oltre 2 milioni di persone, se questo servizio offrisse soprattutto piatti a base di alimenti vegetali, coltivati con pratiche rigenerative ed utilizzando prodotti “esteticamente imperfetti” ma di sicura qualità, i risultati sarebbero estremamente concreti e significativi.

Naturalmente non dobbiamo illuderci che sia possibile eliminare tutto lo spreco alimentare. è inevitabile che lungo tutta la filiera qualcosa si perda comunque. In questo caso piuttosto che gettare questo cibo non utilizzato nelle discariche il suo compostaggio o l’uso di “digestori anaerobici” consentirebbero di generare elettricità o di produrre terreno fertile.

Se queste misure venissero attuate fin da subito, secondo stime prudenziali, nei prossimi trenta anni sarebbe possibile ridurre le emissioni di gas serra di circa 14 miliardi di tonnellate. Scelte individuali e sistemiche possono non soltanto arginare il trend di crescita e il continuo depauperamento delle aree boschive ed erbose ma dare anche un contributo fondamentale alla drastica riduzione della fame nel mondo.

Articolo di Natale Seremia